In Ucraina l'Europa costretta a limitare i danni

Mercoledì 23 febbraio 2022

Editoriale di Carlo Muzzi sul Giornale di Brescia di mercoledì 23 febbraio 2022

Pubblichiamo l'editoriale di Carlo Muzzi (uno dei docenti del corso di geopolitica Fabula Mundi), pubblicato sul Giornale di Brescia di mercoledì 23 febbraio 2022.

 

L'azione russa di annessione del Donbass nell’Ucraina orientale riporta con brutalità alla ribalta il tema della politica estera dell’Unione europea. O meglio la capacità di risposta che i Ventisette, il Regno Unito e gli Stati Uniti a fronte di un’operazione militare della Federazione russa e al rischio di una guerra in Ucraina. Serpeggia nell’opinione pubblica occidentale, o in larga parte di essa, l’idea che l’Occidente si stia mostrando debole di fronte all’aggressività di Putin e all’espansionismo di Mosca. Il primo assunto da cui partire è che nessuno in Europa occidentale e sull’altra sponda dell’Atlantico è disposto a morire per Kiev Né tantomeno per la zona contesa tra Russia e Ucraina nelle repubbliche indipendentiste di Lugansk e Donetsk. Le stesse opinioni pubbliche che oggi denunciano l’immobilismo occidentale domani non sarebbero disposte ad accettare dei soldati morti al fronte del Donbass. Ma si tratta, davvero di un caso ipotetico, perché la posizione assunta dall’Europa e dagli Usa è esclusivamente quella di sanzioni ai russi proporzionate in base a ciò che sta avvenendo nello stato ucraino. Più in generale l’unica strategia che gli Usa, i suoi alleati europei (e anche la Nato) possono mettere in campo, anche per salvare la faccia, è quella di un rinnovato containment (la dottrina americana e dell’alleanza atlantica applicata durante la Guerra fredda per limitare l’espansione dell’Unione sovietica).

 

Facendo un passo indietro, è utile provare ad immaginare come Mosca vede il blocco occidentale e come mai proprio ora ha deciso di dare seguito alle proprie ambizioni territoriali in Donbass, che erano congelate dal settembre 2014 quando vennero siglati gli accordi di Minsk. L’inizio del 2022 è stato certamente propizio a Putin: l’Europa appare più vulnerabile per effetto di una fase di transizione di potere.

 

Il governo «a semaforo» tedesco sta ancora prendendo le misure ed in particolare sulla politica estera non è compatto, al suo interno si scontrano la posizione pragmatica (e fino ad oggi accomodante con Mosca) dei socialdemocratici del cancelliere Scholz con l’anima più idealista e intransigente rappresentata dai Verdi. La Germania come potenza guida dovrebbe dettare la linea all’Unione europea, i tentennamenti di Berlino si riverberano inevitabilmente a Bruxelles.

 

Come se non bastasse la Francia è a 50 giorni dalle elezioni presidenziali e Macron alla ricerca della riconferma sulla crisi ucraina ha provato a giocare un ruolo di mediazione tra Russia e Usa, ma più per spendere la carta del peacemaker in chiave elettorale che per una vera convinzione. E infatti i suoi sforzi si sono rivelati vani.

 

Inoltre guardata da est anche l’Italia non sembra preoccupare, anzi è in una fase delicata: è guidata da un governo di emergenza nazionale con al vertice l’ottimo Draghi che è pur sempre un tecnocrate anche se di lusso, mentre i partiti appaiono più preoccupati di spartirsi il piatto del Pnrr che non delle sorti dell’Europa. Senza dimenticare che Italia e Germania devono fare i conti con una dipendenza energetica consistente dalla Russia.

 

A completare il quadro ci sono le difficoltà della Nato, emerse nel precipitoso addio all’Afganistan e non tanto per il fatto in sé ma per il bilancio negativo che ne scaturisce dal suo operato in Asia centrale, strettamente collegato all’esigenza di ripensare completamente strategie e identità. Ed infine gli Stati Uniti con un presidente che, come ha scritto su queste stesse colonne il professor Del Pero, deve fare i conti con un’opinione pubblica «refrattaria sì a intraprendere nuove crociate globali, ma al contempo decisamente critica verso la Russia». Biden si muove sulla lama del rasoio del consenso visto che a novembre sono in programma le elezioni di metà mandato.

 

La risposta alla aggressività russa non può che essere appunto quella del «contenimento» che si traduce oggi nelle sanzioni, nella controinformazione e non certo nelle azioni militari. E questa è l’unica arma che ha l’Occidente a sua disposizione perché - piaccia o meno - escludendo l’opzione militare, si vanno a colpire almeno in teoria i punti deboli di Mosca. Perché la Russia attraversa una profonda crisi economica e industriale e dopo 22 anni anche l’autocrazia di Putin è offuscata, nonostante i muscoli e le prove di forza. La vera sfida non si gioca in Donbass - che possiamo dare serenamente per perso e mettere nel capitolo degli obiettivi raggiunti da Putin - ma su come l’Occidente saprà contenere la Russia nelle sue ambizioni regionali e la Cina in quelle globali.

 

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