Trebeschi, Landi e la tradizione del cattolicesimo democratico bresciano

Mercoledì 15 aprile 2020

Proponiamo l'articolo che è stato pubblicato sul sito delle Acli milanesi a firma di Lorenzo Gaiani

 

 

 

E’ scomparso poco prima di Pasqua, a oltre novant’anni, l’avvocato Cesare Trebeschi, già Sindaco di Brescia dal 1975 al 1985; il mese scorso, sempre a Brescia,  era venuto a mancare Gianni Landi, importante figura di leader operaio cattolico a lungo impegnato nella DC, nella CISL e nelle ACLI. La loro morte, insieme a quella della vedova di Mino Martinazzoli, Giuseppina Ferrari, segna in qualche misura una sorta di congedo rispetto a due importanti filoni del movimento cattolico che ebbero in Brescia una lunga tradizione che si mescolò non sempre armoniosamente dando vita ad un’esperienza singolare che ha determinato gran parte della vita politica locale dagli ultimi decenni del XIX secolo in poi, e che ha avuto importanti riflussi sulla politica nazionale e , per quel che concerne uno dei suoi esponenti, anche sulle sorti della Chiesa universale.

 

L’origine del primo gruppo, quello cui faceva riferimento Trebeschi, è da cercare nella fase immediatamente successiva all’Unità d’Italia, quando settori della borghesia bresciana di più stretta osservanza religiosa incominciano ad organizzarsi nella prospettiva di assumere un ruolo nelle vicende del nuovo Regno senza venir meno alla fedeltà alla Chiesa, contro la quale il processo unitario era stato largamente condotto. Questo a maggior ragione in un contesto locale dove il campo liberale era nettamente spostato su posizioni progressiste ed anticlericali, che avevano il loro leader naturale nell’ex mazziniano Giuseppe Zanardelli, uno dei capi della Sinistra che andò al potere nel 1876, straordinaria  mente giuridica ed uomo di Stato di rilievo, e di Giuseppe Cesare Abba, il cronista dei Mille di Garibaldi.
 
Regista del processo di riscossa del movimento cattolico fu Giuseppe Tovini, beatificato qualche anno fa, che fu insieme figura di politico e di imprenditore sociale il cui nome ricorre di fatto come promotore di banche cattoliche, istituzioni scolastiche, case editrici, giornali, a cui si affiancarono personalità di rilievo come Luigi Bazoli, Giovanni Maria Longinotti, Giuseppe Manziana e Giorgio Montini. Fu proprio l’avvocato Montini ad assumere la guida del giornale “Il Cittadino” che divenne l’organo delle battaglie del movimento cattolico bresciano e si staccò progressivamente dal rigido intransigentismo di cui era impregnato lo stesso Tovini, passando dalla formula negativa “né eletti né elettori” a quella più dinamica di “preparazione nell’astensione”. Del resto, furono questi uomini ad assumere la regia dell’operazione che portò nel 1895 a scalzare il gruppo zanardelliano dalla guida del Comune. Fu abbastanza logico trovare i nomi di Montini, Longinotti e Bazoli fra quelli dei primi promotori del Partito popolare in terra bresciana, e  i primi due vennero eletti in Parlamento lo stesso anno.
 
Fu in quell’ambiente che si formarono i figli di Giorgio Montini, Lodovico (che fu componente del  CLN, costituente e parlamentare democristiano per più legislature) e Giovanni Battista, avviatosi al sacerdozio e divenuto molti anni dopo Papa con il nome di Paolo VI. A Giovanni Battista Montini era particolarmente legato il suo compagno di liceo Andrea Trebeschi, che insieme al futuro Pontefice e ad altri amici diede vita alla rivista giovanile “La Fionda”, che si collocava su posizioni nettamente progressiste e fu sempre più critica nei confronti del fascismo, che ne decretò la chiusura. Trebeschi successivamente fu il punto di raccordo delle disperse sensibilità popolari nel periodo del regime, e fu fra gli organizzatori clandestini della Democrazia Cristiana durante l’occupazione tedesca finché non venne catturato e morì in campo di concentramento nel gennaio del 1945. Nel frattempo “La Fionda “ era rinata come voce della resistenza cattolica bresciana.
 
Cesare Trebeschi era appunto uno dei quattro figli di Andrea, e lo seguì nella carriera forense e nella militanza cattolico- democratica, approdando nel 1975 alla guida dell’Amministrazione cittadina dopo i 37 anni di ininterrotto dominio di Bruno Boni e, soprattutto, un anno dopo la strage fascista di piazza della Loggia che aveva lacerato il cuore della città. In quella strage erano periti, insieme alla moglie, un cugino del nuovo Sindaco, Alberto Trebeschi, e  Giulietta Banzi, moglie dell’Assessore comunale Luigi Bazoli, fratello di Giovanni, banchiere di fama internazionale ed ex Presidente di Intesa San Paolo (il loro padre Stefano era stato parlamentare e promotore di attività culturali ad altissimo livello). Fu sotto la sindacatura di Trebeschi che venne realizzata la prima grande programmazione urbanistica della città di Brescia, sotto la regia di Leonardo Benevolo, con la nascita del quartiere modello di San Polo.
 
Nella dialettica interna della DC il gruppo che veniva detto degli “avvocati”, visto che la maggior parte di loro esercitava la professione forense, e a cui fecero riferimento anche personalità come Tarcisio Gitti, Tino Bino, Piero Padula (che sostituì Trebeschi alla Logga nel 1985) e Mino Martinazzoli,  poteva essere ricondotto ad una posizione riformista che si identificò a livello nazionale nella figura di Aldo Moro – uno dei cui più stretti collaboratori, l’ex partigiano Franco Salvi, era per l’appunto bresciano-  e confluì nella sinistra del Partito dal 1975 in poi, con l’elezione di Benigno Zaccagnini alla Segreteria nazionale.
 
Più complessa la vicenda del gruppo a cui faceva riferimento Landi, che originava da quegli ex contadini inurbati divenuti operai e rimasti legati al loro retroterra cattolico, che spesso avevano partecipato con ruoli diversi alla Resistenza e che, rientrati in fabbrica, dovevano misurarsi con i problemi della ricostruzione e con l’aggressiva presenza social comunista: costoro furono alla base dell’organizzazione delle ACLI all’interno della CGIL unitaria e poi, dopo la scissione del luglio 1948, nella costruzione della CISL, mantenendo un rapporto stretto per quanto dialettico con la Democrazia Cristiana.
 
Lo scontro con la CGIL fu duro, come ovunque, ma non mancarono forme di collaborazione anche inedite per i difficili anni della guerra fredda, come quando all’inizio del 1960 un volantino di rivendicazioni per la vertenza all’ OM-FIAT, cuore della Brescia operaia, venne firmato congiuntamente da FIM e FIOM suscitando le convergenti apprensioni del Vescovo e dei vertici del PCI e della CGIL.
 
Fra le figure di maggiore ascendente di questo gruppo vi fu sicuramente Michele Capra, ex partigiano, Presidente delle ACLI alla fine degli anni Cinquanta, dirigente di rilievo della DC e deputato per due legislature, come pure i suoi successori alla guida del Movimento Aclista Giacomo Bresciani e Mario Faini, il primo operaio della Ideal Standard ed il secondo “permanente” delle ACLI, ambedue autodidatti di grande curiosità intellettuale (a Faini si debbono importanti volumi di storia del movimento cattolico bresciano). In qualche modo laterale, ma importantissima nel quadro della storia politica e sociale bresciana fu la figura di Franco Castrezzati, per lunghissimi anni leader carismatico della FIM, uno dei più stretti collaboratori di Pierre Carniti nel percorso di rinnovamento dei metalmeccanici della CISL: era Castrezzati ad avere la parola durante il famoso comizio sindacale unitario del 28 maggio 1974 quando scoppiò la bomba fascista.
 
Landi, anche lui operaio dell’OM ed allievo di Capra, fu forse personaggio meno esposto di altri, ma decisivo tessitore di reti di raccordo all’interno del sindacato e delle ACLI, spesso su posizioni alternative a quelle ufficiali della CISL (come nel caso del famoso decreto di San Valentino del 1984 che tagliava tre punti di contingenza e del successivo referendum promosso dal PCI l’anno successivo). Il gruppo dell’OM riuscì ad eleggere per tre legislature un deputato nella persona dell’operaio Francesco Lussignoli, e sarebbe riuscito ad eleggere anche il giovane insegnante Gervasio Pagani – un intellettuale di valore che fu Segretario provinciale della DC- se un tragico incidente non lo avesse ucciso insieme a tutta la sua famiglia. Sempre da quel gruppo provennero due Presidenti delle ACLI bresciane, Lorenzo Paletti e Luigi Gaffurini, che fu anche più volte consigliere comunale, assessore, Vicesindaco e per un paio di mesi nel 2008 Sindaco reggente di Brescia.
 
Questo gruppo, che pure ebbe delle differenziazioni interne non da poco (  clamorosa la rottura fra FIM e ACLI bresciane nel 1962 sotto la presidenza di Bresciani, che si trascinò per anni e coinvolse i vertici nazionali Aclisti e cislini) fu all’origine dell’organizzazione del gruppo di Forze Nuove – la “sinistra sociale” della DC- a Brescia e, dopo la rottura a livello nazionale fra Donat Cattin e Bodrato, si legò a quest’ultimo venendo a confluire nella cosiddetta Area Zac. Era la stessa posizione del gruppo degli “avvocati” moroteo-basisti , i quali tuttavia emanarono sempre un’aura di aristocrazia, soprattutto intellettuale, che rendeva complesso il rapporto, soprattutto a livello locale dove evidentemente vi erano dinamiche diverse da quelle nazionali e pesava la progressiva ascesa della componente centrista che faceva capo a Gianni Prandini, radicata nella provincia profonda e portavoce di quelle realtà imprenditoriali agricole e industriali diffidenti nei confronti di ogni forma di apertura a sinistra e in qualche modo desiderose di sostituirsi all’antico ceto dirigente nelle più rilevanti posizioni di potere politico e finanziario.
 
In ogni caso, in un contesto sociale e culturale in cui la dinamica del movimento cattolico ha contato non poco – a Brescia vi è una delle sedi dell’Università Cattolica ed esistono ben tre importanti case editrici di ispirazione cattolica, Morcelliana (che pubblicò alcuni dei più impegnativi saggi di Giovanni Bianchi), Queriniana (all’avanguardia nel rinnovamento teologico) e La Scuola- le vicende di questi gruppi diversi fra di loro ma animati da un’ispirazione comune hanno rappresentato un punto di riferimento solido nella seconda città della Lombardia, e senza tema di smentita si può dire che Brescia non sarebbe quella che è adesso se non fosse stato per l’opera di questi uomini, e che la stessa ispirazione che condusse Paolo VI nella difficile fase del rinnovamento postconciliare sarebbe stata impossibile se egli non avesse avuto alle spalle questo retroterra.
 
Molte città d’Italia potrebbero narrare storie simili, spesso declinate al passato al netto della buona volontà di chi oggi opera nella politica e nella realtà sociale: non è un caso tuttavia che l’illanguidirsi di questa radice politica e sociale così tipica del nostro Paese abbia il suo riflesso nella decadenza per non dire nell’inconsistenza della classe politica attuale, ben testimoniata dalle incertezze (a dir poco) nella gestione della drammatica stagione che stiamo vivendo.
 
dal sito www.aclimilano.it
 
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